Storia dei moti celesti

Storia dei moti celesti dalla Mesopotamia al futuro

Storia dei moti celesti dal Tigri e l’Eufrate alle sonde Voyager e oltre… Lo studio millenario dei moti planetari, del Sole e della Luna prende il via dalle teorie cosmologiche babilonesi, nelle quali l’Universo era una grande ostrica rotonda e la Terra una grande montagna che galleggiava su acque profonde. Al di sopra della montagna si trovava una cupola solida che era sormontata dalle cosiddette “acque superiori”. Queste ultime filtravano attraverso la cupola sotto forma di pioggia. Il Sole la Luna i pianeti e le stelle si muovevano lentamente, da un bordo all’altro di questa enorme cupola celeste, e apparivano ad oriente per andare a tramontare ad occidente.

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Storia dei moti celesti: una data molto importante per lo sviluppo l’astronomia nella pianura fra il Tigri ed Eufrate è il 1800 a. C., quando incomincia l’ascesa di Babilonia e l’inizio della dinastia di re Hammurabi. Gli astronomi in quel periodo iniziarono a calcolare la rotazione apparente diurna del cielo. Una prima spiegazione organica  di questo moto fu fornita nell’antico testo Ea, Anu, Enlil – risalente all’epoca fra il 1400-1000 a.C. Il cielo in quest’opera viene suddiviso in tre “vie”, dedicate ad altrettante divinità: Ea prendeva il percorso più esterno, attraversato dalle stelle a sud dell’equatore celeste, mentre suo figlio Enlil prese la via interna delle stelle circumpolari vicine quindi al Polo Nord Celeste. Infine, Anu prese la strada di mezzo, a cavallo all’equatore celeste. Lungo ciascuna via, 12 stelle divinità indicavano i mesi dell’anno col loro sorgere eliaco e, in ciascun periodo dell’anno, 18 di queste stelle si rendevano visibili. Sempre in quel periodo – a cavallo del I millennio a.C. – iniziarono le osservazioni sistematiche della volta celeste. Particolare attenzione era riservata al pianeta Venere del quale venivano annotati la posizione in cielo sia il mattino che la sera.

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Storia dei moti celesti: nel periodo che va dal VII al VI secolo a. C., durante il regno di Nabucodonosor II, fu redatto un almanacco all’interno del quale grande attenzione veniva prestata ai movimenti della Luna e dei pianeti, e dove vengono annotate le loro congiunzioni con le stelle fisse. Il moto del Sole durante l’anno fu suddiviso in 12 zone di 30° gradi ciascuno. Siamo agli albori del calendario solare formato dai 12 mesi. Dalla Mesopotamia si passa, lungo le sponde del Nilo, a un’altra “culla della civiltà”. Anche per gli antichi egizi l’universo era una grande ostrica, anche se aveva una forma diversa rispetto a quella babilonese. Era infatti sagomato come un grande parallelepipedo. Sulla faccia rivolta verso il basso si trovava al Terra, mentre su quella rivolta verso l’alto si trovava il cielo. Questo era costituito da una mucca appoggiata con le proprie zampe sui quattro angoli della Terra, o anche da una donna appoggiata sui gomiti e le ginocchia. In seguito divenne il coperchio metallico di una scatola. Attorno alle pareti interne di questa sorta di scatola cosmica vi era una galleria sospesa e invisibile lungo la quale scorreva un fiume su cui gli dei Sole e Luna facevano scivolare le proprie barche. Gli astri del cielo erano immaginati come lampade appese alla volta celeste, oppure spostate dagli dei. Per quanto riguarda i pianeti, attraversavano sulle proprie imbarcazioni su canali che fluivano dalla Via Lattea, considerata la controparte celeste del fiume Nilo. Lungo la storia millenaria che si svolse lungo la terra del Nilo, tutte le branche della scienza ebbero il tempo di svilupparsi e prosperare e, fra queste, naturalmente l’astronomia. Partendo dal calendario, gli egizi misuravano il tempo lungo un anno solare – al contrario Babilonesi che utilizzavano un calendario lunare – ossia sulla base del cammino della stella del giorno sulla volta celeste. L’anno egiziano iniziava dalla levata eliaca di Sirio la quale, tra l’altro, coincideva con le piene del Nilo che portavano nei campi il limo che li rendeva fertili. L’anno egizio era formato da 12 mesi di 30 giorni più 5 giorni “supplementari”.

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Storia dei moti celesti: per la misura del tempo, in frazioni più brevi di un intero anno, gli abitanti della valle del Nilo usavano meridiane durante il giorno e clessidre – a sabbia o acqua – durante la notte. Nelle ore notturne veniva anche utilizzato il sistema dei decani: si divideva, infatti, l’eclittica in 36 zone di circa 10°, associate a stelle singole o gruppi di stelle, all’interno delle quali potevano scorgere la levata del Sole, e che venivano quindi attraversate dal Sole stesso durante l’anno. I decani erano dunque raffigurati su un reticolo che rappresentava lo spostamento del Sole durante le ore notturne. Ed allora, dopo 10 giorni da quello in cui il Sole era sorto in un decano, passava in quello successivo e, conseguentemente, il sorgere del primo decano segnalava che ci si trovava nell’ora decanica prima dell’alba. 

Con un salto oltreoceano si incontrano i Maya avevano una concezione dell’universo inscritto in una grande piramide che poggiava sul dorso di un grande coccodrillo che nuotava nel mezzo del mare cosmico. Quattro divinità sostenevano il firmamento, che era raffigurato come un grande drago a due teste, il cui corpo era una grande striscia celeste su cui erano incise le stelle. Fra cielo e Terra si muovevano il  Sole, la Luna, e Venere dalla brillante luce che poteva essere osservata all’alba o al tramonto. L’origine del Sole e di Venere era ricollegata mito dei due gemelli che avevano sconfitto i signori della morte, in una partita a palla, e che si erano poi trasformati nei due citati corpi celesti. Gli Incas, secondo la leggenda, provenivano da tre caverne molto profonde, o, secondo un altro mito, dalle profondità del lago Titicaca che si trova al confine fra Perù e Bolivia. Il re inca era poi considerato il figlio del Sole che dominava sull’universo al centro del quale si trovava il tempio di Cuzco, dedicato alla divinità solare. Dal tempio del Sole fluivano i cheques, ossia le linee che lo collegavano ai luoghi sacri. Figura centrale del cosmo era la Via Lattea che si muoveva nel cielo, per poi tuffarsi poi nell’Oltretomba. Sulla sua superficie trasportava le costellazioni, fra cui le più conosciute rappresentavano un serpente, un rospo, una femmina di lama con il suo piccolo e una volpe. Fra il firmamento e la Terra volteggiavano il  Sole e la Luna.

Ritornando nel Vecchio Continente, la tappa successiva è la Grecia. Aristotele pone riporta il nostro pianeta al centro dell’Universo. La Terra era circondata da nove sfere trasparenti e concentriche, chiuse l’una sull’altra. La sfera più vicina a noi era quella della Luna. Seguivano poi quelle dei pianeti – inframmezzate dal Sole – e poi l’universo aristotelico si chiudeva con la sfera delle stelle fisse, al di fuori della quale vi era il “primo motore”, che faceva muovere e l’intero Creato, ovvero Dio. L’universo di Aristotele si reggeva sulle sfere concentriche che ruotavano intorno alla Terra che ne costituiva il centro. Circolarità e perfezione nel movimento delle sfere dunque erano i protagonisti dell’universo aristotelico. Colui che teorizzò l’“universo a sfere” fu Eudosso – brillante matematico e allievo di Platone – la cui opera fu continuata dal suo discepolo Calippo. Eudosso assegnò a ciascun pianeta non una, ma diverse sfere che ruotavano intorno alla Terra. Ciascun pianeta, in particolare, era fissato su un punto dell’equatore di una sfera che girava intorno al proprio asse. Questa sfera penetrava in una concentrica più grande che, a sua volta, entrava in una sfera ancora maggiore. Questo complicatissimo sistema faceva sì che il pianeta partecipasse a tutte le rotazioni indipendenti delle sfere che costituivano una sorta di “nido” e che il suo moto le facesse girare ad alta velocità. Le sfere erano tre per il  Sole e la Luna, ma diventavano quattro per spiegare i movimenti più complicati dei cinque pianeti. Quando si parla del cosmo aristotelico dominato da nove sfere, in realtà, si fa un’affermazione approssimativa. Le sfere, infatti, erano addirittura 56.

Le teorie di Aristotele fu continuata da Claudio Tolomeo, vissuto nel II secolo d.C., con il proprio trattato – il Megale Syntaxis o Almagesto nella sua traduzione araba. Secondo l’astronomo greco che lavorò ad Alessandria d’Egitto, il cielo era una vasta sfera in perenne rotazione attorno a un unico centro per tutte le stelle, determinato da un proprio asse. Un’affermazione confermata dalla rotazione del firmamento intorno al Polo Celeste (Nord). Tolomeo asseriva che anche la Terra fosse una sfera e la conferma di ciò poteva essere rinvenuta nel fatto che il  Sole e le stelle non sorgessero nello stesso istante, ma prima nelle località che si trovavano più a oriente rispetto a quelle poste più ad occidente. La Terra era però al centro del cielo e, quindi, dell’Universo.

Diversamente le diverse zone del cielo, che sembravano uguali in qualsiasi punto le si osservassero sarebbero apparse invece diseguali. Da ciò si poteva agevolmente trarre la conseguenza che la Terra fosse immobile. In caso contrario, se avesse avuto quindi un proprio moto, si sarebbe allontanata dal centro del mondo stesso. La sua immobilità derivava anche dalla necessaria presenza di un punto preciso verso cui tutti i movimenti dei corpi degli astri dovessero fare riferimento. Un eventuale movimento di rotazione della Terra, vista la sua grande massa, sarebbe così forte da lasciare indietro qualsiasi corpo di trovasse sulla sua superficie. Per quanto riguarda i pianeti, la sua teoria gli diede lustro per circa 1400 anni e rimase, per quel lungo periodo di tempo, intatta. Il sistema delle sfere – ideato da Eudosso e ripreso da Aristotele – considerava i pianeti in movimento intorno alla Terra a distanze invariabili, anche se un dubbio rimaneva aperto, riguardo al differente splendore che i pianeti stessi mostravano. La questione delle distanze andava quindi riconsiderata. Il fenomeno venne spiegato – probabilmente per la prima volta da Apollonio di Rodi – con il seguente meccanismo: il moto dei pianeti era costante e circolare rispetto al proprio centro dell’orbita che però non si trovava sulla Terra ma spostato rispetto  ad essa, così da non sembrava regolare.

Un altro problema riguardava i moti dei pianeti, che sembrano fermarsi – nelle cosiddette stazioni – poi tornare indietro – il cosiddetto moto retrogrado – sulla volta celeste. Queste stazioni e retrogradazioni non sembravano però verificarsi sempre nello stesso punto della volta celeste. Per ovviare a questo problema venne inventato il concetto di epiciclo. Secondo tale teoria il pianeta ruotava intorno ad un preciso punto che si trovava al centro del cerchio, che rappresentava l’orbita del pianeta stesso. Il pianeta, però, ruotava lungo un cerchio minore, il cosiddetto epiciclo, il cui centro si trovava sulla circonferenza stessa. Dunque si allontanava ed avvicinava da noi, spiegando così le differenze di brillantezza. Con questa teoria si comprendevano, così, anche i moti di longitudine dei pianeti, ma non quelli di latitudine. A ciò l’astronomo alessandrino ed i suoi seguaci non diedero risposta. La mancata spiegazione di questo moto dei pianeti sulla volta celeste può anche essere ricercato con la poco sensibile variazione del moto di questi pianeti, per via della loro inclinazione minima sul piano dell’eclittica.

Le teorie tolemaiche dettarono legge fino all’avvento di Copernico e Galileo. Da quel momento – seppure con molta fatica – è la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa. Ma la vera figura “rivoluzionaria” nella storia dei moti planetari sarà  Johannes Kepler, latinizzato in Keplero.

Alla morte del grande Tycho Brahe, il grande astronomo danese, avvenuta nel 1601, Keplero gli succedette nella carica di matematico imperiale a Praga, qualifica che mantenne fino al 1612. E, nel 1609, pubblicò la sua opera più importante, l’Astronomia Nova, ovvero la fisica celeste, tratta dai commentari dei movimenti di Marte, sulla base delle osservazioni di Thycho Brahe.

Fu un’opera di fondamentale importanza per l’astronomia. Si può, infatti, affermare che Newton non avrebbe potuto scoprire la legge di gravitazione universale senza l’apporto fornito a lui dagli studi di Keplero. Erano leggi naturali intese nel senso moderno del termine: si tratta, infatti, di enunciati precisi, facilmente verificabili e relativi a rapporti universali che governano i singoli fenomeni e che sono espressi in termini matematici.

Questi enunciati rivoluzionari consentirono di separare l’astronomia dalla teologia, per unirla invece alla fisica. Da quel momento, la cosmologia sarà liberata dall’ingombrante presenza di ruote e sfere, e l’universo ed il Sistema solare saranno popolati da corpi celesti simili alla Terra e in perenne rivoluzione attraverso gli spazi siderali. Keplero intuì che il Sole non occupava il centro preciso dell’orbita circolare del pianeta, bensì uno dei due fuochi di un’ellisse. Da questa deduzione presero il via gli studi che lo portarono a formulare le tre celebri leggi.

La prima afferma che tutti i pianeti si muovevano attorno al Sole su orbite ellittiche di cui il Sole stesso occupava uno dei fuochi.

La seconda dice che il raggio vettore, ovvero la linea immaginaria che congiunge il centro del pianeta con quello del Sole , descrive, in tempi uguali, aree uguali.

La terza legge stabilisce che il quadrato del periodo siderale di un pianeta – ossia il periodo che impiega a compiere un’intera rivoluzione intorno al Sole – è proporzionale al cubo della sua distanza dal Sole stesso.

La causa principale di questi movimenti planetari era dovuta all’attrazione gravitazionale del corpo più grande, il Sole, nei confronti dei pianeti che ruotano attorno ad esso: l’astronomia moderna era nata e la via per le leggi di Isacco Newton era stata aperta.

La Philosophiae naturalis principia mathematica Principi matematici della filosofia naturale – risale al 1687 ed è un’opera che espone la teoria della gravitazione universale e getta le basi della meccanica celeste. È un’opera formata da tre libri, preceduti da otto definizioni sulle regole fisiche e matematiche che sarebbero state alla base della sua opera:

  1. la quantità di materia è il prodotto della densità per il volume;
  2. la quantità di moto è il prodotto della densità per la velocità;
  3. la forza interna alla materia è il potere che ha di resistere, grazie alla quale ogni corpo rimane nello stato di quiete o di moto rettilineo uniforme;
  4. la forza impressa è un’azione esercitata su un corpo dall’esterno e ha l’effetto di modificare lo stato del corpo stesso, sia esso in uno stato di quiete o di moto rettilineo uniforme;
  5. la forza centripeta è quella che fa tendere i corpi verso un determinato punto, come se fossero diretti verso un centro;
  6. la quantità assoluta della forza centripeta è più o meno grande a seconda dell’efficacia della causa che la propaga dal centro;
  7. la quantità acceleratrice della forza centripeta è proporzionale alla velocità che produce in un determinato lasso di tempo;
  8. la quantità motrice della forza centripeta è proporzionale al movimento che produce in dato tempo.

Il primo libro dei Principia era dedicato ai moti dei corpi soggetti all’azione di una forza centrale, nella situazione ideale per approfondirne lo studio, ovvero il vuoto perfetto. Il secondo prendeva invece in esame i corpi immersi in un fluido più o meno resistente. Nel volume III Newton descriveva i moti dei pianeti e dei loro satelliti e dimostrava le leggi che li governavano attraverso le regole della gravitazione universale. I moti dei pianeti e satelliti, rispetto al Sole, dipendevano dalle rispettive masse e distanze. Lo scienziato inglese affermava inoltre come anche le comete appartenessero al nostro Sistema Solare e descrivessero moti ellittici più allungati rispetto ai pianeti, se non addirittura delle parabole senza ritorno. Con queste scoperte si postulava, per la prima volta, che “gli astri chiomati” potessero transitare più volte nei pressi del Sole e del nostro pianeta.

La via a Sir Edmond Halley dalla sua celebre cometa fino alle sonde Voyager e oltre era aperta…

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