Mar Adriatico e ghiacci perenni, via Istria, Dalmazia e Venezia Giulia: potrebbe sembrare curioso accostare un mare temperato, facente parte del bacino del Mediterraneo, sinonimo di bagni e vacanze al Sole, con i ghiacci de mari del Nord, delle Notti Bianche, del Sole di Mezzanotte e della Notte Polare in particolare il Mare Polare Artico; invece è il plot di un’esplorazione, di un’avventura straordinaria e sovranazionale del tempo che fu.
Mar Adriatico, grazie anche alle Alpi Dinariche, però è sinonimo anche di freddo, in particolare di vento o venti freddi, come la Bora, il Vento Strega un fenomeno catabatico capace di far scendere le temperature e, di molto, nel corso dei mesi invernali: e chissà che questo vento che spira dal Golfo di Trieste fino alle Bocche del Cattaro, lungo i litorali cari a grandi della lingua italiana quali Dante Alighieri, Gabriele D’Annunzio e Niccolò Tommaseo, non abbia temprato la scorza dei marinai istriani, dalmati, giuliani per farli arrivare fino alle temperature super fredde. Non ne siete certi? Allora leggete la storia della prima spedizione austro ungarica alla volta del Polo Nord…
Mar Adriatico e Polo Nord: una storia targata XIX secolo che parte dal Mare di Barents, ovvero quella porzione del mar Glaciale Artico localizzata a nord della Norvegia e della Russia, delimitato a ovest dal mare di Norvegia, a nord ovest dalle isole Svalbard, a nord-est dalle isole della Terra di Francesco Giuseppe (di cui si parlerà in dettaglio sotto) e a est dalle isole della Novaja Zemlja e Vajgač.
Una premessa: con l’unità d’Italia la maggioranza degli ufficiali veneti, eredi della Serenissima alias Venezia, patria del Carnevale, passarono al Belpaese e quindi l’Austria fu costretta ad aprire l’Accademia Marina ai cittadini di tutto l’Impero Asburgico, con il risultato di avere un corpo ufficiali multinazionale a capo di equipaggi formati da italiani, sloveni, croati, dove si parlava una Babele di lingue anche se quella degli ufficiali era, ovviamente, il tedesco: tra questi Carl Weyprecht che, appassionato ai temi delle esplorazioni polari, geografiche e scientifiche, in quel di Trieste, entrò in contatto con il geografo tedesco August Petermann e iniziò a progettare una spedizione polare austro-tedesca.
Trovato appoggio in quel di Vienna nel mecenate Hans von Wilczek, acquistò una nave, ideata e fatta costruire per essere sollevata dai ghiacci e non essere stritolata dalla banchisa, al secolo battezzata Tegetthoff, che portava il nome del famoso ammiraglio austriaco Wilhelm von Tegetthoff, sotto il quale Weyprecht aveva a suo tempo servito.
A questo punto Weyprecht operò una scelta di rottura rispetto al passato, ovvero non seguì la consuetudine di avvalersi di equipaggi nordici per le spedizioni polari, a discapito di marinai mediterranei che si pensava non fossero adatti a spedizioni estreme; a suo parere, invece, i marinai adriatici potevano essere tagliati per questo tipo di viaggi, in quanto capaci, per geni e residenza, di sopportare il caldo e il Sole d’estate e il freddo gelido sprigionato dalla Bora in inverno. Ma non solo: a suo giudizio, rispetto ai loro colleghi scandinavi non si mostravano presuntuosi, erano meno dediti all’alcool, possedevano quel senso dell’umorismo tipicamente mediterraneo, così utile per non cadere in depressione nei momenti di difficoltà.
Ecco il roster della spedizione:
Nostromo: Pietro Lusina, capitano dell’Isola di Cherso;
Marinai: Antonio Scarpa (triestino), Giuseppe Latkovich (di Fianona), Pietro Fallesich e Lorenzo Marola (fiumani), Vincenzo Palmich, Francesco Lettis e Giacomo Sussich (da Volosca), Antonio Zaninovich (from Lesina), Antonio Catarinich (di Lussino), Antonio Lukinovich (von Brazza), Giorgio Stiglich (di Buccari);
Maestro d’ascia: Antonio Vecerina da Draga presso Fiume;
Maestro del ghiaccio: Elling Carlsen (norvegese).
Detto che gli ufficiali erano quasi tutti boemi ed ungheresi, si segnala la presenza di Edmund Orel moravo, e di un paio di scalatori alpinisti provenienti dal Tirolo, per complessivi 24 uomini (ai quali furono aggregati nove cani e due gatti).
La missione: a dispetto delle previsioni dei pessimisti i marinai adriatici dimostrarono di possedere una fibra eccezionale; infatti, secondo i diari di bordo, anche con temperature che sfioravano i 50 gradi sotto zero, non indossavano pellicce, mostravano un comportamento equilibrato, erano ligi al dovere e nella ritirata dai ghiacci, a cui si dovettero sottoporre dopo due anni di spedizione, durante la quale furono impegnati in una marcia forzata (a bordo di slitte e barche) che sembrava essere senza speranza, non si persero d’animo, anzi continuarono in uno sforzo collettivo disumano verso la salvezza che fu raggiunta, per trasformare questo gruppo di intrepidi in vere e proprie star internazionali (per maggiori dettagli vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Spedizione_austro-ungarica_al_polo_nord).
Va ricordato comunque come nella spedizione si sia potuta verificare l’assoluta validità della nave che, pur non riuscendo nella traversata prevista, non si distrusse a causa pressioni del ghiaccio anche se, bloccata nella banchisa, purtroppo non riuscì a navigare verso il mare aperto al largo della già sopra citata Novaja Zemlja (arcipelago oggi appartenente alla Federazione Russa), andando alla deriva nel ghiaccio dopo il suo abbandono da parte dell’equipaggio.
Va detto che all’epoca si pensava che d’estate l’oceano artico fosse navigabile, che i ghiacci si sciogliessero per via della continua insolazione e che quindi si creasse il passaggio a nord-est tra Atlantico e Pacifico ed era questo l’obiettivo della missione.
Fallita questa ricerca la spedizione asburgico-melting pot tuttavia scoprì la landa più settentrionale dell’Europa, la sopra citata Terra di Francesco Giuseppe che, occupata dall’URSS dopo la prima guerra mondiale, consentì agli allora sovietici (e oggi ai Russi) di mettere le mani su importanti giacimenti di metano e idrocarburi.